Tew Bunnag è un autore, maestro e praticante thailandese di Tai Chi, Chi Kung e meditazione. Nato in Thailandia e cresciuto tra Inghilterra e Francia, ha saputo fondere la saggezza orientale con la comprensione occidentale. In oltre cinquant’anni di carriera insegna le arti contemplative e accompagna le persone nelle fasi più importanti della vita, nel percorso di approfondimento interiore, invecchiamento, malattia e morte. Radicato nella filosofia buddhista e nelle arti marziali, il suo lavoro si concentra sulla trasformazione interiore, la compassione e la presenza.
Per me, un Bodhisattva contemporaneo, di grande umiltà e ispirazione, e sono felice ed onorata di averlo incontrato nel mio percorso di ricerca e di conoscenza di me.
Intervista a Tew Bunnag: Domande Essenziali, Risposte Autentiche
Chi sei?
“Questa è una domanda su cui sto ancora lavorando. Non credo che riuscirò mai a rispondere, nemmeno a me stesso, perché la risposta non è fatta di parole. Potrei dirti: sono tailandese, nato in Thailandia, cresciuto in Inghilterra e in parte in Francia. Ma questa è solo una descrizione esterna. La vera risposta è un processo. Ho cominciato a intuire qualcosa circa 50 anni fa, quando ho iniziato a insegnare. Ma anche allora mi chiedevo: ‘Cosa sto facendo? Chi sono in tutto questo?’ La mia vita è stata, ed è tuttora, una scoperta di chi sono.”
“In realtà, da quando ho iniziato a insegnare, circa 50 anni che ho iniziato a comprendere qualcosa. Avevo circa 28 anni. Ho avuto ricordi molto precoci, come se fossi tornato per fare qualcosa. Per molti anni avevo dimenticato questo. Negli ultimi 10-15 anni ho cominciato a ricordare perché sono tornato: per contribuire, per canalizzare qualcosa. Non voglio sembrare importante, ma questo è il senso di chi sono.”
Infanzia
“La mia tata era buddhista, meditava e invitava i monaci a casa. Mi svegliava la mattina per mettere cibo nelle ciotole dei monaci. Era una vita molto buddhista. Ma non solo: da bambino ho anche iniziato a praticare la boxe, sia thailandese che occidentale. Quindi da sempre ho avuto questi due aspetti: la parte spirituale e quella marziale, che oggi convivono nelle mie pratiche.”
Cosa significano per te le arti marziali
“Per me le arti marziali sono un dono prezioso. Purtroppo, molte volte vengono ridotte solo a una questione di vittoria o sconfitta, di chi è il più forte. Ma per me non è mai stato così. Le arti marziali mi hanno insegnato tantissimo sulla paura, sulla violenza, e soprattutto su come trasformare entrambe. Quando pratichi davvero, ti accorgi che la paura e la violenza sono dentro di te, e non negli altri. E che se riesci ad affrontarle, puoi trovare uno spazio di pace.
Quando ero giovane, mi piaceva la boxe. Amavo combattere. Ma anche allora capivo che quella pratica mi stava insegnando a perdere senza rabbia, a riconoscere come le emozioni negative ti divorano dentro. Ti insegnava a rimanere centrato, calmo, anche quando tutto intorno si muoveva.
Le arti marziali interne, che ho scoperto verso i miei 18-19 anni, sono state ancora più preziose. Ti portano dentro di te. Non si tratta più solo di bloccare un colpo, ma di capire da dove nasce il movimento, la reazione, l’impulso. Ti aiutano a vedere come la pratica fisica possa essere una via per conoscere e trasformare la tua interiorità.
Quindi sì, le arti marziali possono essere un cammino spirituale. Ma solo se le pratichi con cuore, con coscienza, con apertura. Altrimenti diventano solo un altro modo per alimentare l’ego.”
La pratica
“La pratica è fondamentale, ma deve avere un lato spirituale. Nell’ inchino delle arti marziali, c’è questo gesto: una mano chiusa e una aperta. La mano chiusa rappresenta la tecnica, il talento, l’abilità. Ma la mano aperta è importantissima: è il cuore, la compassione. Tutta la tua abilità deve essere guidata dal cuore. La pratica più importante è coltivare la compassione, aprire il cuore.”
La pratica più importante è coltivare la compassione, aprire il cuore.
Come possiamo capire se siamo sul cammino giusto?
“Se pratichi e poi vai in giro per strada pensando a un potenziale combattimento ovunque, non è un modo confortevole di vivere. È stressante, pieno di ansia. Il mondo diventa un nemico. Se sei onesto con te stesso, te ne accorgi. Forse stai imparando tanto, sei in forma, ma se non riesci a relazionarti al mondo con pace, allora c’è qualcosa su cui lavorare.”
Il ruolo del maestro
“Il maestro è importante, ma bisogna chiarire cosa intendiamo per maestro. C’è un grande equivoco culturale, soprattutto tra Oriente e Occidente. In molti contesti si pensa che il maestro debba avere autorità assoluta, che debba essere un modello perfetto da imitare, che debba avere tutte le risposte. Ma per me non è così. Io non ho mai amato la parola ‘maestro’.
Molto spesso dico nei corsi: un maestro è intrappolato dal suo stesso ruolo. Deve sapere tutto, non può mostrarsi vulnerabile, non può dire ‘non so’. E questo è un grande limite, per lui e per chi lo segue. Invece, un buon insegnante è prima di tutto uno studente. Qualcuno che continua a imparare, che resta curioso, vivo, aperto al cambiamento.
Anche con i bambini: i migliori insegnanti che conosco sono quelli che sanno restare incantati come i loro alunni, che non perdono lo stupore. Insegnare non è distribuire certezze, ma mantenere viva la scintilla della scoperta.
Il problema del ‘maestro’ è che si fissa in un’immagine: non può bere un bicchiere di vino, non può sbagliare. Non è una vita comfortevole, per il maestro.”
“C’è un malinteso: il maestro assume autorità e potere, e lo studente lo copia, cerca di diventare un clone… e poi lo sfida. Ma io non ho mai creduto nella figura del ‘maestro’. Spesso dico: ‘Un maestro è intrappolato dal suo essere maestro’. Deve sapere tutto, avere tutte le risposte. Non è vero tanto per cominciare. Un buon insegnante è prima di tutto un allievo: continua a imparare, a evolversi, a restare curioso.”
Chi sono stati i tuoi maestri più influenti?
“Una psichiatra scozzese che a 91 anni voleva imparare il Chi Kung da me. Lei mi ha insegnato: ‘Ricevi, trattieni, trasmetti’.
Un maestro tibetano, Trungpa Rinpoche cui insegnamenti tornano spesso nella mia memoria, anche se poi ha vissuto con alcune contraddizioni. E Dhiravamsa, un abate thailandese che mi ha detto: ‘Non andare in monastero. La vita spirituale si vive nella vita quotidiana.”
La vita spirituale si vive nella vita quotidiana.
Come è cambiata la tua pratica nel tempo?
“Quando ho iniziato a insegnare, ero giovane, pieno di fuoco, e mi piaceva ancora combattere. Facevo un lavoro forte, intenso, fisico. Le persone che venivano da me erano anch’esse giovani e avevano bisogno di quell’intensità. Ma con il tempo la mia energia è cambiata, sono cambiato io, e anche il mondo è cambiato.
Anche se avessi oggi la stessa energia, non tornerei a quel tipo di pratica. Perché oggi sento che c’è un’urgenza diversa. Il mondo è più ansioso, più ferito. Viviamo in tempi frenetici, pieni di depressione, incertezza e divisione. Ho figli, nipoti, e vedo cosa vivono. Ho iniziato anche a lavorare con la morte e il morire più di vent’anni fa. E questo ha trasformato il mio modo di praticare.
Oggi la mia pratica è più gentile, più mirata a sostenere emozioni profonde, ad accompagnare le persone. Non sono un purista: non credo che si debba fare sempre la stessa cosa per tutta la vita. Credo che la pratica debba essere autentica rispetto a chi sei, ma anche rilevante per il tempo in cui vivi. Deve adattarsi alla vita, non restare rigida.”
“C’è un’urgenza diversa nel mondo. La pratica deve essere autentica per chi sei e rilevante per ciò che vive il mondo.”
Lavorare con la morte
“Ho iniziato in un centro spirituale in Inghilterra, dove arrivavano persone malate, in lutto o terminali. Ma è stato nel 2000, dopo la morte di mia moglie e il suicidio di mia nipote, che ho deciso di fare volontariato in un centro di Bangkok. Lì ho scoperto che una parte del centro era stata trasformata in un ospedale per malati terminali di AIDS, molti dei quali erano lavoratori del sesso. È stato un vero shock, ma anche un apprendistato. Lavorando con bambini e morenti, ho capito che dovevo lasciare andare la formazione “ufficiale” e imparare una presenza più autentica.”
Cosa significa accompagnare?
“Accompagnare è una parola bellissima. In Spagna, dove vivo, si dice ‘acompañar’, che viene da ‘con pan’ – con il pane. Significa che sei accanto a qualcuno, stai spezzando il pane con lui. Non lo stai guidando, non lo stai curando, non lo stai correggendo. Sei semplicemente lì, al suo fianco, con tutta la tua umanità.
E questo non è così semplice. Significa essere accanto con le tue ferite, le tue paure, la tua vulnerabilità. Finché non puoi stare con te stesso in quel modo, non puoi davvero stare con l’altro. Puoi occuparti di lui, ma non esserci veramente con lui.
Accompagnare è condividere. È lasciare che la tua presenza compassionevole parli più delle parole. Le parole non servono, o spesso non arrivano. Ma la tua presenza, quella sì, è reale, tangibile. E questo l’ho imparato dai bambini morenti. Loro non avevano linguaggio spirituale, non sapevano nulla di buddhismo o religione. Ma sentivano quando tu c’eri davvero con il cuore. E questo era tutto.”
I bambini mi hanno insegnato che non servono parole o consigli, ma presenza compassionevole.
Come dovremmo vivere l’invecchiamento?
“Con grazia, gioia, gratitudine, creatività. L’invecchiamento non è una condanna, è una fase della vita ricchissima, se la sappiamo vivere. Ma spesso, nella nostra società, alle persone anziane viene fatto credere di essere inutili. Di non servire più a nulla perché non producono, non contribuiscono più all’economia. Questo è un enorme errore.
C’è tantissimo da fare anche da anziani. Anche solo sedersi in silenzio e canalizzare gentilezza, amore, compassione nel mondo.
Il problema è che nessuno ci insegna questo. Nessuno ci insegna a invecchiare. Non lo consideriamo nemmeno un’opzione valida, restare in silenzio e trasmettere amore. Non ci fidiamo di ciò che non possiamo vedere, misurare, replicare in laboratorio. Ma la realtà non è solo quella materiale: ci sono dimensioni energetiche, vibrazionali, che ci sfuggono e che però sono reali.
E con l’invecchiamento arriva anche la consapevolezza della morte. Io sto già preparando il mio orizzonte. So che è lì, davanti a me, come quelle montagne lontane che però si avvicinano. Ma lo guardo con calma, con gratitudine.”
“Molti si sentono inutili perché non fanno più parte del ciclo produttivo. Ma c’è tanto da fare. Anche solo stare seduti e canalizzare gentilezza amorevole nel mondo è prezioso. Solo che nessuno ci insegna come farlo.”
Come affrontare la paura?
“La paura è la grande questione. Non solo per le persone anziane, ma anche per i giovani. Molti si avvicinano alle arti marziali proprio per paura: paura di essere vittime, di essere feriti. Allora imparano a difendersi, e va bene, ma solo se affrontano davvero la paura. Non serve costruirsi una corazza, diventare invincibili all’esterno, se dentro c’è un bambino che trema. Paura di fallire, paura di essere visti, paura di connettersi agli altri… è così diffusa.
I buddhisti dicono che la paura è la radice di molte delle follie del nostro comportamento individuale, relazionale e sociale. Il problema è che spesso, anche nelle pratiche spirituali, cerchiamo di bypassare o reprimere la paura. Invece, c’è un’altra opzione: permetterle di emergere, riconoscerla. Dove la senti? Nello stomaco? Nella gola? Nel cuore? Il corpo ce lo dice.
Allora si lavora attraverso il corpo. È qui che le pratiche come il Chi Kung, le mudra, la respirazione, diventano strumenti. Non risolvono tutto, ma ti permettono di entrare in relazione con la paura, invece di evitarla. Questo è un lavoro prezioso: non si tratta solo di affrontare la propria paura, ma anche quella degli altri, che è contagiosa. La paura è una vibrazione, un’energia. E va affrontata con presenza e radicamento.
“La paura è contagiosa, è un’energia vibratoria. Anche se sei centrato, chi è molto paranoico ti destabilizza. Bisogna imparare a restare presenti senza esserne vittime.”
Che consiglio daresti a un bambino, a un adulto, a un anziano e a una persona in fin di vita?
“Svegliati. Questo vale per tutte le età.
Un bambino è già sveglio. Il bambino è incantato dal mondo, si meraviglia per tutto. Il nostro compito, come adulti, dovrebbe essere quello di proteggere quel senso di incanto, non spegnerlo. Ma purtroppo l’educazione spesso fa il contrario: addestra i bambini a diventare funzionari, impiegati, a chiudersi. Invece bisognerebbe coltivare la curiosità, la sensibilità.
Per i giovani, direi: apritevi. Viviamo in un tempo in cui molti giovani si chiudono dietro uno schermo, vivono nei social, aspettano i “like”. Questo li chiude, li fa ripiegare su se stessi. Invece hanno il fuoco dentro, hanno energia: che la usino per fare qualcosa! Per aiutare, per partecipare. Non c’è bisogno di andare in Africa: basta andare in un quartiere della tua città e dare una mano. Fare volontariato, mettersi in gioco. Aprirsi.
A chi è nella mezza età direi: svegliati dal tuo sapere. Quella è l’età in cui pensi di sapere tutto, hai le tue opinioni, le tue ideologie, le tue convinzioni. Ma questo può diventare una prigione. La vera sfida è continuare a imparare, a disimparare, a restare curiosi.
E agli anziani… direi: torna a incantarti. Recupera quello sguardo di meraviglia che avevi da bambino. Ora che non hai più tante responsabilità, puoi goderti il tempo, puoi contemplare. Guarda una montagna, un volto, un tramonto con occhi nuovi. Coltiva la gratitudine, la presenza. E se puoi, trasmetti amore nel mondo. Anche solo sedendoti in silenzio e irradiando gentilezza. Questo ha valore. Questo cambia il mondo.
E alle persone in fin di vita, direi: non è troppo tardi per svegliarsi. La tristezza più grande che sento quando accompagno qualcuno che sta morendo non è tanto il fatto che sta morendo. Ma che si rende conto di non aver davvero vissuto. Di aver dormito per anni. Per questo, a ogni età, l’invito è lo stesso: svegliati. Resta sveglio. La vita è un miracolo.
La tristezza più grande, non è che la gente muoia. Ma che non abbia vissuto. La cosa più triste è chi, alla fine, dice: ‘Non mi dispiace morire. Mi dispiace non aver vissuto.
Calendario eventi, ritiri ed esperienze di consapevolezza
Ecco una serie di percorsi che possono aiutarti a coltivare questa parte fondamentale della tua natura. Esplora quelle che ti sembrano più adatte a TE: